Hanno l'età in cui i bambini occidentali abbandonano i cartoni animati per passare ai videogiochi delle guerre stellari, quelle "megagalattiche", per usare un loro ricorrente linguaggio. L'infanzia invece viene rubata ogni giorno ai bambini asiatici, africani, latinoamericani. A sette, dieci, dodici anni, la loro guerra non è un gioco, non è virtuale, è quella vera, terribile, lastricata di odio, morte, sangue, atrocità. Bambini senza ricordi, con gli sguardi vuoti, o allucinati dalle droghe. Sono i baby-soldato. Un fenomeno da anni in inarrestabile espansione. Sono trecentomila: un esercito armato di kalashnikov, Ak47 o di fucili d'assalto americani M16, leggeri da caricare e maneggiare come armi giocattolo. Utilizzati in sessanta paesi, da eserciti regolari, guerriglia, ribelli, milizie. Impegnati in interminabili guerre etniche, religiose, regionali. Sono bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni, costretti spesso con la forza, talvolta con false promesse, a lasciare la vita normale per cominciare ad adoperare un fucile mitragliatore.
E ci sono anche le bambine soldato. Smentendo così il luogo comune che vuole i maschietti amanti della guerra. In alcuni casi come in Salvador, Uganda, Etiopia, le ragazze costituiscono un terzo dei minori che combattono nei conflitti armati. Spesso vengono rapite per essere assegnate come "mogli" ai comandanti e usate anche in combattimento come spie. Baby soldati il più delle volte utilizzati come carne da cannone: mandati avanti sui campi minati, per aprire la strada all'esercito. Prima dell'azione militare, li eccitano riempiendoli di droga. Cocaina, anfetamine o polvere da sparo bruciata e mischiata col riso, succo di canna da zucchero o hashish. I loro addestramenti sono crudeli, perché crudeli devono essere le loro missioni. Molti erano rapiti durante le razzie nei villaggi, e poi addestrati all'uso delle armi e della violenza. E ancora una volta anche in questo caso è l'Africa a detenere il primato. In Sudan, dove da quasi trent'anni il Nord musulmano combatte il Sud cristiano e animista, i bambini fanno parte del bottino di guerra delle truppe regolari del governo di Khartum. Quando i ragazzi non possono essere venduti come schiavi, vengono convertiti all'Islam, addestrati e mandati a combattere al Sud contro i villaggi di provenienza. Nella sola Sierra Leone poi, per tornare alla recente guerra, secondo Olara Otunnu, rappresentante speciale dell'Onu per i bambini nei conflitti armati, ne sono stati rapiti almeno diecimila solo l'anno scorso. Un flagello per cui spesso ci si indigna, ma ben poco si fa.
E poi ci sono le storie individuali. Naftal è nato nel Mozambico. Ha 17 anni. E'stato rapito quando di anni ne aveva undici. In questo povero paese dell'Africa nera, ex colonia portoghese, la lunga guerra civile era ancora in corso, e lui - era il periodo di Natale - aveva pensato di andare a fare visita ad alcuni parenti assieme alla famiglia. I guerriglieri della Renamo arrivarono al villaggio, ammazzarono decine di persone, ne rapirono altre. Camminò per due giorni con un sacco di granturco da 25 chili sulle spalle. Per due anni, Naftal sparò con il suo Ak47. «Se non lo avessi fatto, loro avrebbero sparato a me». E' una delle tante drammatiche testimonianze raccolte dall'Unicef, l'organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa dell'infanzia. Naftal ha combattuto per due anni, prima di essere colpito da un proiettile a una gamba. Oggi non è solo un ex ma anche un sopravvissuto di quella carneficina che sono i conflitti armati: nell'ultima decade sono stati uccisi oltre due milioni di bambini e ragazzi al disotto dei 18 anni, secondo i dati dell'Onu. A una mozambicana, Graca Machel, vedova del presidente Samora Machel e attuale consorte di Nelson Mandela, ex presidente del Sudafrica ed eroe della lotta contro l'apartheid, si deve la descrizione in modo organico della drammatica situazione dei bambini-soldato nel mondo. La Machel era stata designata come esperta dalle Nazioni Unite nel 1994, e due anni dopo, nel 1996, presentò un rapporto sull'impatto della guerra sui bambini utilizzati nei conflitti armati. Un lavoro costante. Culminato con l'approvazione di una risoluzione dell'Onu che considera, a partire dal 1998, l'uso di bambini-soldato sotto i 15 anni un crimine di guerra.
Lo stabilisce la Convenzione sul Tribunale penale internazionale permanente, firmata a Roma, due anni fa, dai paesi aderenti alle Nazioni Unite. Nella Convenzione poi contro il lavoro infantile, siglata un anno fa, si proibisce espressamente il reclutamento di ragazzi al di sotto dei 18 anni da parte delle forze combattenti. Carta straccia per molti paesi e non solo per quelli del Terzo mondo, che pure l'hanno sottoscritta. La regolamentazione internazionale dell'uso dei bambini in guerra ha sempre trovato, in questi anni, infatti, uno strano ostacolo all'interno del fronte dei paesi più sviluppati. Anche il "civilissimo" Occidente arma i minorenni: Canada, Stati Uniti, Australia, Olanda e Gran Bretagna ammettono nei propri ranghi militari ragazzi non ancora diciottenni. Il record negativo è della Marina di Sua Maestà Britannica con il limite di arruolamento a soli 16 anni. L'esercito inglese nella guerra del Kosovo, un anno fa, ha fatto combattere 17 ragazzi. Ne inviò ben 381 nella Guerra del Golfo del 1991 e uno rimase ucciso. Oggi la Gran Bretagna può contare su 4.991 soldati non ancora maggiorenni. Un po' meglio stanno le cose negli Stati Uniti:
il reclutamento è a 17 anni, ed è comunque necessario il consenso dei genitori. Da gennaio scorso poi gli Stati Uniti - dopo sei anni di denunce, di campagne da parte delle associazioni per la difesa dei diritti umani - hanno deciso di aderire alla Convenzione internazionale sui diritti del bambino, che proibisce l'uso di ragazzi-soldato al di sotto dei 18 anni. La Gran Bretagna invece non l'ha sottoscritto. Dei bambini soldato si conoscono sopratutto i casi riguardanti i paesi africani, per il riesplodere costante dei conflitti. Ma la piaga colpisce anche gli altri continenti, dove la povertà endemica, è il principale veicolo alla guerra. In Asia i baby-soldati sono usati regolarmente in Afghanistan, paese che detiene il primato di oltre centomila bambini coinvolti nella guerra civile. E dove giungono anche minori provenienti dal Pakistan e reclutati attraverso alcune scuole religiose. Gli stessi talebani, al potere a Kabul, hanno cominciato il loro addestramento da adolescenti. Bambini soldati anche nello Sri Lanka, rapiti e addestrati dalle tigri tamil che combattono il governo centrale di Colombo. Bambini spediti come pacchi bomba a immolarsi tra i mercati pieni di gente nelle città dell'isola. Anche la Cambogia, all'epoca dei khmer rossi e di Pol Pot, non faceva eccezione. Come ha testimoniato Loung Ung, una donna ora impegnata nella campagna contro le mine anti-uomo, e che ha scritto un racconto sulla sua infanzia durante il genocidio del popolo cambogiano alla fine degli anni Settanta. Lei divenne una bambina-soldato dopo l'uccisione di suo padre da parte dei khmer rossi.
E poco più in là in un altro paese asiatico, in Birmania, l'incubo non è affatto finito: l'arruolamento forzato di bambini e ragazzi è fatto dal Tatmadaw, l'esercito di Rangoon, che la dittatura militare al potere ha deciso di ampliare a dismisura, fino a 475 mila unità per combattere le tendenze separatiste e gli oppositori. Secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani dell'area, sono molti i bambini che finiscono torturati e uccisi durante la loro permanenza nelle file dell'esercito. Dei bambini soldato fanno ampio uso anche i guerriglieri separatisti dell'etnia Karen, che combattono contro il governo centrale di Rangoon. Anzi, tra le loro file c'è un vero culto di gemelli in armi, protagonisti, qualche mese fa di spettacolari azioni di guerriglia. Ma il manuale dell'orrore contro queste vittime della follia degli uomini sembra non avere fine. Nel continente latinoamericano, in Nicaragua, El Salvador, Perù, Colombia, Messico i baby soldato sono spesso avanguardie delle lotte dei movimenti di liberazione, dei gruppi paramilitari, o degli eserciti regolari. E giù, per le scale della violenza sino all'iniziazione dei giovanissimi guerrieri di Sendero Luminoso in Perù, costretti a tagliare la gola dei condannati a morte dai "tribunali del popolo". Come ha raccontato Marta, reclutata a 11 anni. «Picchiarono tutti quelli che stavano lì, vecchi e giovani. Poi li uccisero come cani. Erano una decina. Io non ho ucciso nessuno. Anche i bambini vennero massacrati...». L'uso dei bambini nei conflitti non è certo un fenomeno di questo secolo, e tanto meno riguarda solo i paesi meno sviluppati, le società tribali o i popoli primitivi. Si chiamavano "enfants perdus", bambini perduti, i tamburini e i pifferai che davano il ritmo ai soldati degli eserciti napoleonici: schierati in prima fila, cadevano come mosche sotto il fuoco dell'artiglieria nemica. Non erano molto più grandi i dodicenni tedeschi delle Hitlerjugend, chiamati da Adolf Hitler nel 1945 a difendere Berlino. Saltavano sui carri armati del nemico cercando di infilarci le bombe a mano nelle feritoie. Così come dall'altra parte l'Armata rossa di Giuseppe Stalin era piena di "figli del reggimento", bambini orfani, adottati dai soldati e spesso usati in missioni suicide. Ma dopo quella carneficina che è stata la seconda guerra mondiale, si auspicava, con la nascita dell'Onu, che agli orrori fosse messa la parola fine. Valga per tutte la testimonianza di "Hitler Killer", come veniva chiamato un bambino della Liberia. Sottratto alla guerra da un'organizzazione umanitaria che lavorava a Monrovia, capitale del paese africano, oggi è un ex combattente.
L'avevano lasciato nelle retrovie della guerra. In un attimo di secondo il suo comandante gli cambiò la vita consegnandogli un kalashnikov che il bambino, allora di undici anni, poteva smontare e rimontare con facilità. E che per lui divenne il mezzo per ottenere cibo, le cose degli altri, rispetto. Il tutto uccidendo. Oggi ha un nuovo nome, cerca di cancellare la violenza, ma nel sonno ha un incubo ricorrente: le facce dei suoi morti che lo schiacciano fino a soffocarlo. Lo psichiatra che l'ha in cura cerca di riportarlo all'infanzia, all'infanzia rubata.