Bambini soldato

Il fenomeno del bambini soldato avviene quando dei fanciulli vengono impiegati in operazioni militari o illegali in tutto il mondo, oppure prostituendosi. Il loro supporto può essere direttamente nelle ostilità o in ruoli di supporto (vedette, messaggeri, spie).

In diversi momenti della storia e in molte culture, i minori sono stati coinvolti in campagne militari anche quando la morale comune lo riteneva riprovevole. A partire dagli anni settanta sono state firmate numerose convenzioni internazionali allo scopo di limitare la partecipazione dei bambini ai conflitti; nonostante questo, sembra che l'utilizzo dei bambini soldato negli ultimi decenni sia in aumento.

In alcuni paesi africanisudamericani o asiatici, i bambini soldato (Child-Soldiers) sono spesso soggetti a questo tipo di sfruttamento. A questi bambini, in alcuni casi, vengono somministrati degli stupefacenti,[1] mentre le bambine vengono spesso usate per scopi sessuali ma anche per cucinare, piazzare esplosivi, aprire la strada all'esercito sul campo minato perché possono essere rimpiazzate più facilmente, non devono essere pagate e non si ribellano.

Il Protocollo opzionale sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati stabilisce che nessun minorenne può essere impiegato direttamente alle ostilità, nonché essere arruolato obbligatoriamenteLo Statuto della Corte penale internazionale include, fra i crimini di guerra nei conflitti armati, l'arruolamento di fanciulli minori di 18 anni, o il fatto di farli partecipare attivamente alle ostilità.

“Io, bambino soldato ho ucciso per non morire”

Ingannati, portati nella foresta del Congo, rapiti e costretti a combattere Parlano i ragazzi hutu che sono riusciti a scappare dalla foresta e a salvarsi.
Ex bambini soldato accolti al «Muhoza Child Ex Combatants Rehabilitation Centre» di Musanze. La maggior parte è stata reclutata a forza dal gruppo guerrigliero delle Forces Democratiques de Libération du Rwanda, composto da hutu che combattono il governo di Paul Kagame, salito al potere dopo il genocidio del 1994: 800mila morti negli scontri interetnici
 
MUSANZE (RUANDA) SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
 
 

Il viso è quello di un adolescente, la voce anche. Gli occhi sono neri, lo sguardo profondo. Emmanuel muove le mani con frenesia, come se stesse battendo il tempo alle parole che escono come un fiume in piena. Ha voglia di parlare, ora che, finalmente, ha la possibilità di farlo. 

 

Ora che ha la possibilità di incontrare persone disposte ad ascoltarlo e non, come fino a due mesi fa, solamente pronte a dargli ordini. Sì perché Emmanuel per cinque anni non ha fatto altro che prendere ordini. Era un soldato, un bambino soldato. A dodici anni gli hanno messo in mano un fucile e gli hanno ordinato: spara! 

«E io l’ho fatto, non avevo altra scelta. Se no avrebbero ucciso me - racconta questo ragazzo 17enne -. Mi hanno preso con l’inganno, mi hanno rapito. Un uomo che conoscevo, di un villaggio vicino al mio nell’Est del Ruanda, mi ha chiesto un giorno se potevo dargli una mano a pascolare le vacche. Gli ho detto di sì, e non sono più tornato a casa».  

 

L’hanno portato nella foresta, in quella distesa di alberi e vulcani che copre la zona al confine tra Repubblica Democratica del Congo, Ruanda e Uganda, gli hanno fatto un lavaggio del cervello, l’hanno minacciato di morte. «Sono entrato a far parte del Fdlr (Forces Democratiques de Libération du Rwanda) senza volerlo, senza saperlo – continua -. Mi hanno obbligato per cinque anni a rubare, saccheggiare villaggi, uccidere. Ho subito violenze, ho visto donne violentate, famiglie distrutte. Poi non ce l’ho più fatta, mi sono fatto forza e appena ho avuto l’opportunità sono scappato».  

 

Non è un caso isolato quello di Emmanuel, sono centinaia, forse migliaia, i bambini soldato reclutati con l’inganno e la forza dalle milizie ribelli, in primis Fdlr e Rud-Urunana, che operano in quella che è una delle zone più instabili dell’intera Africa. Milizie, come l’Fdlr, composte da guerriglieri hutu, già carnefici durante il Genocidio ruandese di 20 anni fa, scappati dal Paese subito dopo la fine della mattanza del 1994 per paura di rappresaglie e vendette. Milizie che si sono riorganizzate nella foresta, e che dalla foresta hanno lanciato una guerra contro il governo di Kigali. 

 

Attentati, violenze, imboscate, questi gruppi rappresentano la minaccia più grave per la fragile stabilità del paese guidato con pugno di ferro da Paul Kagame. Gruppi che puntano a riprendere il controllo del Paese, come hanno sempre affermato, a sfruttare le miniere e le risorse di questo ricco territorio, ma che stanno perdendo uomini uno dopo l’altro perché la vittoria sembra essere sempre più lontana. Ed ecco quindi che servono nuove leve, nuove braccia per lavorare, nuove teste da traviare. Come Emmanuel, ma anche come Innocent, John, Martin, Jean, e i circa trenta ragazzi tra i 12 e i 18 anni che, scappati dalla foresta e dalle armi, hanno trovato rifugio al Muhoza Child Ex Combatants Rehabilitation Centre di Musanze, nel Nord del Ruanda, quasi al confine con la Repubblica Democratica del Congo. 

 

Qui vengono aiutati a essere reinseriti nella società, gli vengono impartite lezioni, gli viene insegnato un mestiere. Gli viene data assistenza nel tentativo di rintracciare le proprie famiglie, anche se la maggior parte di loro non ha più nessuno. Come Jean, 16 anni, due anni passati sul fronte con l’Fdlr. «Un giorno di due anni fa, era marzo se non sbaglio, sono sceso dal mio villaggio per andare al mercato. Ho incontrato un gruppo di ribelli che avevano appena finito di saccheggiare alcune case. Ho provato a scappare, ma mi hanno preso. Per due anni ho fatto da scorta armata a un colonnello dell’Fdlr, ho partecipato a scontri a fuoco. Non ho mai provato a scappare perché mi dicevano che se fossi tornato in Ruanda i soldati governativi e la polizia mi avrebbero ucciso, che era in corso una battaglia e che l’Fdlr la stava vincendo. Quando ho scoperto che non era vero sono scappato».  

 

Ragazzi cresciuti troppo in fretta, che invece di giocare a calcio nei campi polverosi sono stati costretti a imbracciare un fucile, un kalashnikov, e a sparare. Rapiti con la forza, presi con l’inganno, ma anche nati semplicemente nel posto sbagliato. «Sono nato in un campo dell’Fdlr - racconta John -. Mio padre era un combattente, mia madre era stata rapita dal proprio villaggio nel Congo. Appena ho raggiunto l’età e la stazza per combattere mi hanno dato un’arma e mi hanno mandato sul fronte, a sparare e saccheggiare. La vita nella foresta è dura, sfinente. Sono riuscito a resistere per quattro anni, poi ho deciso di fuggire. Mi sono presentato a una base Monusco nel Congo e da lì sono stato rimpatriato». Storie di violenza, di infanzia e adolescenza perduta, che, purtroppo, non sono un’eccezione in questo continente. I ragazzi, i bambini, sono più malleabili, sono facilmente persuasibili. Carne fresca, sacrificabile. In Centrafrica così come tra le foreste del Ruanda e del Congo. 

 

 

“Io, per sempre il bambino soldato che tagliava le mani ai nemici” 

 
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La maestra di vita di Papani Kamara (foto) si chiamava Adama «cut hands». Adama taglia mani. Tutti i bambini la conoscevano così. «Ci ripeteva sempre che i machete dovevano essere ben affilati. Era importante. Perché se il taglio era netto, le persone svenivano. Altrimenti il polso o il gomito rimanevano attaccati al resto del braccio con un lembo di carne. Era terribile. Perché in questi casi le persone si trasformavano, urlavano, rantolavano per terra, facevano pipì...». Quando era soltanto un bambino di dieci anni e viveva nel villaggio di Baomahun, Sierra Leone, Papani Kamara era un soldato del Ruf, il Rebel United Front. «Passavano con la siringa già carica. Ci drogavano qui sul braccio. Eravamo un mucchio di cani ammassati. Ci usavano come attrezzi per i loro affari personali. Prima di incendiare le case del villaggio, il nostro comandante faceva uscire tutti. Costringeva il figlio a violentare la madre. Dovevamo assistere. Io sentivo le grida e guardavo il fucile affondare nel collo del ragazzo.

Sapevo che se avessero rifiutato sarebbero morti, ma poi morivano ammazzati lo stesso. Quando i bambini disobbedivano, venivano freddati all’istante. Lo facevano per educarci...».

kamara-papani-ferite-webQuesti pezzi di incubo messi in fila piangendo, durante mesi di colloqui, sono raccolti nella relazione psicologica su Papani Kamara. Come nota a fondo pagina, la sua psicoterapeuta si è premurata di spiegare: «Si tratta di informazioni confermate da osservatori internazionali. L’uso di droghe, arrivate attraverso il contrabbando di diamanti, era uno degli strumenti usati dal Ruf per portare avanti le sue missioni. Nel corso della guerra, arriveranno a marchiare i bambini come capi di bestiame».

Oggi l’ex soldato bambino ha 24 anni. Soffre di depressione e sindrome post traumatica grave. Vive in miseria alla periferia di Roma. Ha una stanza dentro un palazzo occupato con altre cento persone emarginate dalla crisi. Sono italiani, cinesi e africani come lui, fanno i turni per le pulizie e per la guardia al cancello. Papani è scappato dalla guerra in Sierra Leone. Ha vissuto sette anni in Costa d’Avorio, prima di attraversare il deserto del Niger su un camion carico di sigarette di contrabbando. Poi è scappato anche dalla guerra in Libia. «Volevano arruolarmi nell’esercito di Gheddafi - racconta - mi sfottevano: “Voi della Sierra Leone siete bravi a combattere...”». Papani è sbarcato a Lampedusa durante l’emergenza Nord Africa, nella primavera 2011. Era convinto di trovare requie, ma il suo passato lo insegue anche qui. «Tutti hanno paura di me. Pensano che io possa cambiare all’improvviso, tornare a fare qualcosa di male. Ma non è così. Vorrei dirlo al mondo: era per colpa della droga se ho fatto quelle cose. Quando me la iniettavano non capivo più niente, non riconoscevo più nessuno, neppure i miei genitori».

kamara-papani-divisa-webPapà Momodou era il capo villaggio, sua madre si chiamava Fatou. Sono stati sterminati in un incendio appiccato con la benzina. Tutto brucia ancora nella vita di Papani. «Un piccolo lavoro - dice fissando il muro - ecco quello che sogno. Imparare un mestiere. Stare sereno, potermi fare una famiglia». Ma questi due anni italiani sono stati un fallimento. «Per me le cose peggiorano di giorno in giorno. Non lavoro, non studio. Per poter iscrivermi a un corso di italiano mi hanno chiesto 100 euro». Il tempo vuoto è spaventoso, specie quando sei circondato dai tuoi ricordi. Sulla parete c’è una madonna. Decoder e cavi posticci. Un piccolo cagnetto guaisce alla catena dal palazzo di fronte.

Papani racconta per la prima volta quello che lo fa piangere a dirotto: «Adama mi ha chiesto di tagliare le mani del mio migliore amico. Io mi sono rifiutato. Guardavo Moses negli occhi, tremava e mi supplicava. Allora Adama mi ha picchiato come non aveva mai fatto prima, mi ha puntato il coltello alla gola... Mi ha detto di tagliare come mi aveva insegnato...». Questo preciso momento, nel rapporto psicologico su Papani Kamara, viene definito la scelta impossibile: «Una delle tecniche di tortura più atroci, utilizzata come rito di passaggio e prova di affiliazione ai Ruf. L’obbligo di tagliare il braccio di Moses mirava a separarlo definitivamente dal suo passato e dai suoi affetti...». Papani piange su un piumino rosa recuperato nella spazzatura. Non ha mai avuto una fidanzata. Nel telefonino tiene immagini di donne nude che ispirano i suoi sogni. Dice che certe sere beve cinque birre perché è l’unico modo in cui riesce a non pensare: «Fino a quando non chiederò perdono a Moses per quello che gli ho fatto, non potrò stare in pace...». E quando gli effetti alcolici virano da ritmi reggae a suoni molto più spaventosi, tutto si mischia in un gigantesco caleidoscopio dell’orrore: le urla di Moses che si contorce a terra, un gommone nero carico di persone che pregano e vomitavano in mezzo al mare, le rivolte nel Cara di Bari, le notti da solo alla stazione Termini.

bambini-soldati-webIl permesso di soggiorno per motivi umanitari di Papani Kamara sta per scadere. Non ha soldi per rinnovarlo. Il ministero dell’Interno non ha ritenuto di concedergli lo status di rifugiato politico: «Non si rinvengono ipotesi di rischio di danno grave in caso di rimpatrio». Papani si asciuga gli occhi. Per un attimo prova a immaginare un colpo di fortuna. Sa fare il piastrellista, accetterebbe qualsiasi lavoro. «Purtroppo non ho trovato persone amichevoli qui in Italia, mi dispiace per quello che sto dicendo. Ho cercato amici, qualcuno con cui parlare, ma non ho trovato nessuno». In verità tre donne hanno cercato di prendersi cura di lui. Una psicologa, un’avvocatessa e una maestra di italiano che si chiama Cecilia. Quest’ultima ha scritto una lettera che Papani Kamara tiene sempre in tasca come un passaporto: «Ti conosco da poco ma sento che sei un bravo ragazzo...». Nessuno l’aveva mai detto prima all’ex soldato bambino.

La guerra dei diamanti
Il Ruf (Revolutionary United Front) è stato l’esercito ribelle che dal 1990 al 2002 ha combattuto una guerra civile nel tentativo di prendere il potere in Sierra Leone. Nato con l’intento di «ridare prosperità al popolo», si è trasformato in uno dei più sanguinosi gruppi armati della storia. L’impiego di soldati bambini e l’uso sistematico di torture ebbero fama internazionale. Le crudeltà del Ruf sono state raccontate nel film «Blood Diamond» del 2006 con protagonista Leonardo Di Caprio. Diamanti insanguinati. La principale fonte di reddito del Paese. Alla fine: più di 43 mila vittime, più di 2000 bambini spariti e un esercito di reduci che ha visto in faccia l’orrore.

Tratto da: La Stampa

 

 

 

 Hanno l'età in cui i bambini occidentali abbandonano i cartoni animati per passare ai videogiochi delle guerre stellari, quelle "megagalattiche", per usare un loro ricorrente linguaggio. L'infanzia invece viene rubata ogni giorno ai bambini asiatici, africani, latinoamericani. A sette, dieci, dodici anni, la loro guerra non è un gioco, non è virtuale, è quella vera, terribile, lastricata di odio, morte, sangue, atrocità. Bambini senza ricordi, con gli sguardi vuoti, o allucinati dalle droghe. Sono i baby-soldato. Un fenomeno da anni in inarrestabile espansione. Sono trecentomila: un esercito armato di kalashnikov, Ak47 o di fucili d'assalto americani M16, leggeri da caricare e maneggiare come armi giocattolo.  Utilizzati in sessanta paesi, da eserciti regolari, guerriglia, ribelli, milizie. Impegnati in interminabili guerre etniche, religiose, regionali. Sono bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni, costretti spesso con la forza, talvolta con false promesse, a lasciare la vita normale per cominciare ad adoperare un fucile mitragliatore.

E ci sono anche le bambine soldato. Smentendo così il luogo comune che vuole i maschietti amanti della guerra. In alcuni casi come in Salvador, Uganda, Etiopia, le ragazze costituiscono un terzo dei minori che combattono nei conflitti armati. Spesso vengono rapite per essere assegnate come "mogli" ai comandanti e  usate anche in combattimento come spie. Baby soldati il più delle volte utilizzati come carne da cannone: mandati avanti sui campi minati, per aprire la strada all'esercito. Prima dell'azione militare, li eccitano riempiendoli di droga. Cocaina, anfetamine o polvere da sparo bruciata e mischiata col riso, succo di canna da zucchero o hashish. I loro addestramenti sono crudeli, perché crudeli devono essere le loro missioni.  Molti erano rapiti durante le razzie nei villaggi, e poi addestrati all'uso delle armi e della violenza. E ancora una volta anche in questo caso è l'Africa a detenere il primato. In Sudan, dove da quasi trent'anni il Nord musulmano combatte il Sud cristiano e animista, i bambini fanno parte del bottino di guerra delle truppe regolari del governo di Khartum. Quando i ragazzi non possono essere venduti come schiavi, vengono convertiti all'Islam, addestrati e mandati a combattere al Sud contro i villaggi di provenienza. Nella sola Sierra Leone poi, per tornare alla recente guerra, secondo Olara Otunnu, rappresentante speciale dell'Onu per i bambini nei conflitti armati, ne sono stati rapiti almeno diecimila solo l'anno scorso. Un flagello per cui spesso ci si indigna, ma ben poco si fa.

E poi ci sono le storie individuali. Naftal è nato nel Mozambico. Ha 17 anni. E'stato rapito quando di anni ne aveva undici. In questo povero paese dell'Africa nera, ex colonia portoghese, la lunga guerra civile era ancora in corso, e lui - era il periodo di Natale - aveva pensato di andare a fare visita ad alcuni parenti assieme alla famiglia. I guerriglieri della Renamo arrivarono al villaggio, ammazzarono decine di persone, ne rapirono altre. Camminò per due giorni con un sacco di granturco da 25 chili sulle spalle. Per due anni, Naftal sparò con il suo Ak47. «Se non lo avessi fatto, loro avrebbero sparato a me». E' una delle tante drammatiche testimonianze raccolte dall'Unicef, l'organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa dell'infanzia. Naftal ha combattuto per due anni, prima di essere colpito da un proiettile a una gamba. Oggi non è solo un ex ma anche un sopravvissuto di quella carneficina che sono i conflitti armati: nell'ultima decade sono stati uccisi oltre due milioni di bambini e ragazzi al disotto dei 18 anni, secondo i dati dell'Onu.  A una mozambicana, Graca Machel, vedova del presidente Samora Machel e attuale consorte di Nelson Mandela, ex presidente del Sudafrica ed eroe della lotta contro l'apartheid, si deve la descrizione in modo organico della drammatica situazione dei bambini-soldato nel mondo. La Machel era stata designata come esperta dalle Nazioni Unite nel 1994, e due anni dopo, nel 1996, presentò un rapporto sull'impatto della guerra sui bambini utilizzati nei conflitti armati. Un lavoro costante. Culminato con l'approvazione di una risoluzione dell'Onu che considera, a partire dal 1998, l'uso di bambini-soldato sotto i 15 anni un crimine di guerra.

Lo stabilisce la Convenzione sul Tribunale penale internazionale permanente, firmata a Roma, due anni fa, dai paesi aderenti alle Nazioni Unite. Nella Convenzione poi contro il lavoro infantile, siglata un anno fa, si proibisce espressamente il reclutamento di ragazzi al di sotto dei 18 anni da parte delle forze combattenti.  Carta straccia per molti paesi e non solo per quelli del Terzo mondo, che pure l'hanno sottoscritta. La regolamentazione internazionale dell'uso dei bambini in guerra ha sempre trovato, in questi anni, infatti, uno strano ostacolo all'interno del fronte dei paesi più sviluppati. Anche il "civilissimo" Occidente arma i minorenni: Canada, Stati Uniti, Australia, Olanda e Gran Bretagna ammettono nei propri ranghi militari ragazzi non ancora diciottenni. Il record negativo è della Marina di Sua Maestà Britannica con il limite di arruolamento a soli 16 anni. L'esercito inglese nella guerra del Kosovo, un anno fa, ha fatto combattere 17 ragazzi. Ne inviò ben 381 nella Guerra del Golfo del 1991 e uno rimase ucciso. Oggi la Gran Bretagna può contare su 4.991 soldati non ancora maggiorenni. Un po' meglio stanno le cose negli Stati Uniti:

il reclutamento è a 17 anni, ed è comunque necessario il consenso dei genitori. Da gennaio scorso poi gli Stati Uniti - dopo sei anni di denunce, di campagne da parte delle associazioni per la difesa dei diritti umani - hanno deciso di aderire alla Convenzione internazionale sui diritti del bambino, che proibisce l'uso di ragazzi-soldato al di sotto dei 18 anni. La Gran Bretagna invece non l'ha sottoscritto.  Dei bambini soldato si conoscono sopratutto i casi riguardanti i paesi africani, per il riesplodere costante dei conflitti. Ma la piaga colpisce anche gli altri continenti, dove la povertà endemica, è il principale veicolo alla guerra.  In Asia i baby-soldati sono usati regolarmente in Afghanistan, paese che detiene il primato di oltre centomila bambini coinvolti nella guerra civile. E dove giungono anche minori provenienti dal Pakistan e reclutati attraverso alcune scuole religiose. Gli stessi talebani, al potere a Kabul, hanno cominciato il loro addestramento da adolescenti. Bambini soldati anche nello Sri Lanka, rapiti e addestrati dalle tigri tamil che combattono il governo centrale di Colombo. Bambini spediti come pacchi bomba a immolarsi tra i mercati pieni di gente nelle città dell'isola. Anche la Cambogia, all'epoca dei khmer rossi e di Pol Pot, non faceva eccezione. Come ha testimoniato Loung Ung, una donna ora impegnata nella campagna contro le mine anti-uomo, e che ha scritto un racconto sulla sua infanzia durante il genocidio del popolo cambogiano alla fine degli anni Settanta. Lei divenne una bambina-soldato dopo l'uccisione di suo padre da parte dei khmer rossi.

E poco più in là in un altro paese asiatico, in Birmania, l'incubo non è affatto finito: l'arruolamento forzato di bambini e ragazzi è fatto dal Tatmadaw, l'esercito di Rangoon, che la dittatura militare al potere ha deciso di ampliare a dismisura, fino a 475 mila unità per combattere le tendenze separatiste e gli oppositori. Secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani dell'area, sono molti i bambini che finiscono torturati e uccisi durante la loro permanenza nelle file dell'esercito. Dei bambini soldato fanno ampio uso anche i guerriglieri separatisti dell'etnia Karen, che combattono contro il governo centrale di Rangoon. Anzi, tra le loro file c'è un vero culto di gemelli in armi, protagonisti, qualche mese fa di spettacolari azioni di guerriglia. Ma il manuale dell'orrore contro queste vittime della follia degli uomini sembra non avere fine. Nel continente latinoamericano, in Nicaragua, El Salvador, Perù, Colombia, Messico i baby soldato sono spesso avanguardie delle lotte dei movimenti di liberazione, dei gruppi paramilitari, o degli eserciti regolari. E giù, per le scale della violenza sino all'iniziazione dei giovanissimi guerrieri di Sendero Luminoso in Perù, costretti a tagliare la gola dei condannati a morte dai "tribunali del popolo". Come ha raccontato Marta, reclutata a 11 anni. «Picchiarono tutti quelli che stavano lì, vecchi e giovani. Poi li uccisero come cani. Erano una decina. Io non ho ucciso nessuno. Anche i bambini vennero massacrati...».  L'uso dei bambini nei conflitti non è certo un fenomeno di questo secolo, e tanto meno riguarda solo i paesi meno sviluppati, le società tribali o i popoli primitivi. Si chiamavano "enfants perdus", bambini perduti, i tamburini e i pifferai che davano il ritmo ai soldati degli eserciti napoleonici: schierati in prima fila, cadevano come mosche sotto il fuoco dell'artiglieria nemica. Non erano molto più grandi i dodicenni tedeschi delle Hitlerjugend, chiamati da Adolf Hitler nel 1945 a difendere Berlino. Saltavano sui carri armati del nemico cercando di infilarci le bombe a mano nelle feritoie. Così come dall'altra parte l'Armata rossa di Giuseppe Stalin era piena di "figli del reggimento", bambini orfani, adottati dai soldati e spesso usati in missioni suicide.  Ma dopo quella carneficina che è stata la seconda guerra mondiale, si auspicava, con la nascita dell'Onu, che agli orrori fosse messa la parola fine.  Valga per tutte la testimonianza di "Hitler Killer", come veniva chiamato un bambino della Liberia. Sottratto alla guerra da un'organizzazione umanitaria che lavorava a Monrovia, capitale del paese africano, oggi è un ex combattente.

L'avevano lasciato nelle retrovie della guerra. In un attimo di secondo il suo comandante gli cambiò la vita consegnandogli un kalashnikov che il bambino, allora di undici anni, poteva smontare e rimontare con facilità. E che per lui divenne il mezzo per ottenere cibo, le cose degli altri, rispetto. Il tutto uccidendo. Oggi ha un nuovo nome, cerca di cancellare la violenza, ma nel sonno ha un incubo ricorrente: le facce dei suoi morti che lo schiacciano fino a soffocarlo. Lo psichiatra che l'ha in cura cerca di riportarlo all'infanzia, all'infanzia rubata.